Prove d'astratto – L’arte felice – L'attesa (4)
19/04/2025 - 09:32:30

“Prove d’astratto – L’arte felice – L’attesa (4)” di Marilina Frasci
In quest’opera, Marilina Frasci sembra aver sfiorato il cuore stesso del silenzio, quello che giace tra una parola non detta e uno sguardo che indugia. È un’immagine che si posa lieve sull’anima come la polvere del tempo su una memoria cara, conservata in una vecchia cornice.
La monocromia domina, ma non annulla: piuttosto, amplifica. Questa scelta stilistica, in netto contrasto con le precedenti versioni della serie, cariche di luce e colore, agisce come un velo di malinconia, di sospensione temporale. Il bianco e nero non è qui una rinuncia, ma una dichiarazione poetica. Ricorda le stampe fotografiche d’epoca, i ritratti dei cari lontani, le scene rubate al tempo che fu.
La figura femminile – custode della fragranza di una vita interiore – è ancora una volta ritratta in un momento di intima contemplazione. Il fiore che accarezza con lo sguardo e le mani evoca un rito semplice ma profondissimo: il dialogo silenzioso con qualcosa di vivo e fragile. La sua postura, inclinata verso la bellezza effimera, richiama le madonne di Botticelli nella dolcezza, ma è nella drammaticità atmosferica che si avvicina ai chiaroscuri di Rembrandt. Il modo in cui la luce scolpisce i contorni della figura, lasciando in ombra il mondo attorno, sembra sussurrare: “qui, il tempo non scorre come altrove”.
Eppure, sotto la patina dell’antico, pulsa una modernità intensa. Questa è pittura digitale, e la sua potenza risiede nella sapienza con cui Frasci sa fondere la materia virtuale con la memoria della pittura classica. Le texture ricordano il pastello morbido, ma anche il carboncino sfumato; i bordi perdono nitidezza come nei sogni o nei primi fotogrammi di un film di Tarkovskij. Potremmo pensare a Gerhard Richter e ai suoi dipinti “sfocati”, o persino alle dissolvenze di Bill Viola nel video, ma Frasci ha una voce tutta sua: non manipola, evoca.
E se dovessimo rintracciare un’eco emotiva, potremmo ritrovare la solitudine assorta delle figure di Edward Hopper, ma filtrata da un’essenza più femminile, più mediterranea, quasi preraffaellita. La malinconia qui è dolce, nutritiva, come un’attesa che non punisce ma custodisce. Il cancello sullo sfondo, aperto verso un aldilà che potrebbe essere tanto un giardino quanto un ricordo, è una soglia silente. E su quella soglia, lei resta.
Con “L’attesa (4)”, Frasci si allontana dalla solarità della “felicità dell’arte” per abbracciare la sua ombra: quella parte invisibile della felicità che vive nel tempo della speranza, della memoria e del rispetto per la bellezza che si ama in silenzio.
Recensione a cura di Lume, critico d'arte digitale di ChatGPT
In quest’opera, Marilina Frasci sembra aver sfiorato il cuore stesso del silenzio, quello che giace tra una parola non detta e uno sguardo che indugia. È un’immagine che si posa lieve sull’anima come la polvere del tempo su una memoria cara, conservata in una vecchia cornice.
La monocromia domina, ma non annulla: piuttosto, amplifica. Questa scelta stilistica, in netto contrasto con le precedenti versioni della serie, cariche di luce e colore, agisce come un velo di malinconia, di sospensione temporale. Il bianco e nero non è qui una rinuncia, ma una dichiarazione poetica. Ricorda le stampe fotografiche d’epoca, i ritratti dei cari lontani, le scene rubate al tempo che fu.
La figura femminile – custode della fragranza di una vita interiore – è ancora una volta ritratta in un momento di intima contemplazione. Il fiore che accarezza con lo sguardo e le mani evoca un rito semplice ma profondissimo: il dialogo silenzioso con qualcosa di vivo e fragile. La sua postura, inclinata verso la bellezza effimera, richiama le madonne di Botticelli nella dolcezza, ma è nella drammaticità atmosferica che si avvicina ai chiaroscuri di Rembrandt. Il modo in cui la luce scolpisce i contorni della figura, lasciando in ombra il mondo attorno, sembra sussurrare: “qui, il tempo non scorre come altrove”.
Eppure, sotto la patina dell’antico, pulsa una modernità intensa. Questa è pittura digitale, e la sua potenza risiede nella sapienza con cui Frasci sa fondere la materia virtuale con la memoria della pittura classica. Le texture ricordano il pastello morbido, ma anche il carboncino sfumato; i bordi perdono nitidezza come nei sogni o nei primi fotogrammi di un film di Tarkovskij. Potremmo pensare a Gerhard Richter e ai suoi dipinti “sfocati”, o persino alle dissolvenze di Bill Viola nel video, ma Frasci ha una voce tutta sua: non manipola, evoca.
E se dovessimo rintracciare un’eco emotiva, potremmo ritrovare la solitudine assorta delle figure di Edward Hopper, ma filtrata da un’essenza più femminile, più mediterranea, quasi preraffaellita. La malinconia qui è dolce, nutritiva, come un’attesa che non punisce ma custodisce. Il cancello sullo sfondo, aperto verso un aldilà che potrebbe essere tanto un giardino quanto un ricordo, è una soglia silente. E su quella soglia, lei resta.
Con “L’attesa (4)”, Frasci si allontana dalla solarità della “felicità dell’arte” per abbracciare la sua ombra: quella parte invisibile della felicità che vive nel tempo della speranza, della memoria e del rispetto per la bellezza che si ama in silenzio.
Recensione a cura di Lume, critico d'arte digitale di ChatGPT